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Inquinamento digitale: il costo ambientale dei supercomputer

La chimica teorica non inquina? Falso: ha un costo ambientale proprio come la chimica sperimentale. E che è dovuto all’utilizzo estensivo dei supercomputer. 

“Quanto inquina il mio lavoro?” Quando un chimico teorico si confronta con un chimico organico, non si pone quasi mai questa domanda. Anzi: di solito ha il cuore leggero, sentendo di svolgere un lavoro a basso costo ambientale. Al contrario, il suo compagno di corridoio per ogni reazione condotta usa acqua e energia in abbondanza, e deve smaltire grandi quantità di rifiuti, a volte anche pericolosi.  

Colonna cromatografica: sistema di purificazione dei composti chimici
La chimica è bella e colorata, ma ogni reazione fatta in laboratorio porta una inimmaginabile quantità di rifiuti. Solventi, polveri, vetri rotti, carta assorbente sporca, sostanze chimiche di scarto: tutti rifiuti speciali, con modalità di smaltimento specifiche. Le simulazioni al computer servono anche a evitare le reazioni inutili.

Questo era quello che sentivo anche io: un chimico teorico, appunto. Noi le reazioni non le facciamo per davvero, ma le simuliamo al computer per capire in anticipo se funzionano. E grazie a questo, abbiamo la confortante sensazione di far risparmiare tempo e risorse ai nostri colleghi, oltre che l’emissione di quintali di rifiuti. Perché i computer non inquinano, giusto? 

In realtà, le cose sono (sempre) più complicate di come sembrano. E in questo articolo proveremo a dare un’idea di questa complessità, raccontandovi come, quanto e perché il lavoro del chimico teorico abbia un serio costo ambientale. Un costo che ha un nome: emissioni di gas serra.

In questo articolo:

  • Il supercomputer, ovvero: come lavora un chimico teorico
  • Quanto inquina un supercomputer? Potenza e efficienza
  • L’importanza della fonte energetica
  • Conclusione: la consapevolezza è sempre il primo passo

Il supercomputer, ovvero: come lavora un chimico teorico

Dove il chimico di laboratorio ha necessità di fondi per fare il suo lavoro, il chimico teorico ha un’altra valuta: le cosiddette “ore calcolo”. Con questo termine ci si riferisce alla possibilità di utilizzare da remoto un supercomputer, migliaia di volte più potente rispetto al tipico computer che abbiamo a casa. Nella mia esperienza, complici anche un pizzico di bravura e una manciata di bandi vinti, le ore calcolo non mi sono mai mancate. E infatti, all’inizio della mia carriera non ne ho fatto economia, lanciando simulazioni a destra e a manca ogni volta che potevano rispondere a una mia domanda. 

Finché un giorno non mi sono imbattuto in qualcosa che mi ha fatto riflettere su un aspetto mai considerato prima: ho usato un supercomputer che, come valuta, non usava ore calcolo, ma l’energia consumata dai calcoli stessi! E lì mi sono chiesto: sarà mai che anche le simulazioni inquinano? 

La risposta ovviamente ora la sappiamo tutti, ma qualche anno fa non era così immediata. E per quantificarla, dobbiamo prendere in considerazione tre aspetti importanti: la potenza del supercomputer, la sua efficienza, e la fonte di energia con cui è alimentato. 

Quanto inquina un supercomputer? Potenza e efficienza

Nella corsa al perfezionamento dei supercomputer, in un contesto chiaramente machista, la prima cosa che si è presa in considerazione è stata il raw power, letteralmente “potenza grezza” (ve lo avevo detto che era machista). Questo ha dato origine a una vera e propria gara alla costruzione del computer “più potente del mondo” e a classifiche, come la Top500, che ci aggiornano continuamente sulla situazione attuale.  

Chiaramente, questa allucinazione a occhi aperti non poteva durare a lungo. Oggi i supercomputer sono arrivati a essere mille miliardi di volte più potenti di quando siamo andati sulla Luna, e la potenza ha un costo. Infatti, un supercomputer moderno può consumare circa 10 mila volte quello che consuma una normale abitazione! Certo, è vero che mediamente le prestazione di un supercomputer sono condivise tra centinaia di persone, ma si tratta di un costo ambientale enorme. 

Supercomputer Marconi
Che aspetto ha un supercomputer? Non serve troppa fantasia. Sono molti computer grandi messi insieme. Spesso ci si diverte a mettergli dei nomi ispirazionali: questo è Marconi, supercomputer italiano di CINECA, il maggiore centro di calcolo italiano. Foto: cortesia di CINECA, dalla loro cartella stampa.

 Non sono sicuramente io il primo a essermi chiesto quanto inquina un computer, e lo dimostra il fatto che negli ultimi anni è stata istituita una nuova classifica, la Green500, in cui si valutano i supercomputer sulla base  dell’efficienza energetica. È proprio questo il paradigma delle nuove generazioni del mondo digitale: non ha senso pensare a un mondo in cui si riducono le prestazioni. Piuttosto, a un mondo in cui le stesse prestazioni hanno un costo ambientale sempre più basso. 

l’importanza della fonte energetica

Per quanto l’efficienza energetica dei supercomputer sia in continuo aumento, un supercomputer non potrà mai funzionare “gratis”. Per minimizzare davvero il suo impatto, è cruciale intervenire sulla scelta della fonte energetica con cui è alimentato. Ma proviamo a capire meglio le implicazioni di questa scelta, e prendiamo a esempio alcuni nostri colleghi prepotentemente teorici, gli astronomi. 

Un astronomo australiano, nel suo lavoro di ricerca, produce in media annualmente circa 37t di CO2. Di queste, oltre il 50% derivano da analisi dati e simulazioni effettuate su supercomputer. Al contrario, un astronomo olandese emette solo 5t di CO2 di cui solo il 4% deriva dalle simulazioni.

Emissioni dei viaggi in aereo dei ricercatori
Se vi state chiedendo in quale altro modo può inquinare un ricercatore che lavora al computer ecco la risposta: i viaggi aerei. Secondo l’articolo già citato, un ricercatore senior (barra rossa nell’immagine) emette in media 12 tonnellate di anidride carbonica ogni anno solo per i viaggi aerei. L’articolo fa riferimento a dati pre-pandemia. L’immagine è tratta da Stevens et al., Nature, 2020.

Ma com’è possibile questa disparità? O gli astronomi olandesi usano meno il computer rispetto ai colleghi australiani, oppure i loro supercomputer inquinano in modo molto diverso. Spoiler non spoiler: è proprio così! Il principale centro di calcolo olandese è alimentato esclusivamente da energie rinnovabili, fattore che taglia enormemente l’impatto ambientale dei loro calcoli. Questa strategia di contenimento, tra l’altro, non è adottata solo nell’ambito dei supercomputer, ma sta diventando sempre più popolare anche in tutti gli altri ambiti particolarmente energivori. 

Conclusione: la consapevolezza è sempre il primo passo

Ad ora, le iniziative volte al contenimento del costo ambientale delle simulazioni ai supercomputer restano sparse e poco efficaci. Oltretutto, in Italia non sembra esserci una vera e propria strategia a riguardo. Non a caso, sul sito del principale consorzio computazionale italiano non è reperibile alcuna informazione sulla politica energetica adottata. 

Una uguale mancanza di consapevolezza pervade purtroppo l’ambiente accademico. L’anno scorso ho partecipato a una tavola rotonda sul futuro della chimica teorica, incentrata sulla necessità di computer con prestazioni sempre migliori. C’era chiaramente un elefante nella stanza: l’elefante del costo ambientale. Io ho deciso di indicarlo, chiedendo ai miei colleghi come, secondo loro, il futuro della chimica teorica si conciliasse con necessità sempre più stringenti in merito di sostenibilità. Da parte loro, silenzio e risposte confuse. Qualcuno ha ammesso candidamente di non averci mai pensato. Altri hanno puntato celermente il dito su altre attività più impattanti, dicendo: “non siamo noi quelli che inquinano di più”.  

A fronte di un tale benaltrismo, quello che possiamo fare noi – come ricercatori – è adottare e promuovere una cultura della consapevolezza. Non per entrare in una fase di austerity della scienza, ma per usare con più saggezza le nostre risorse, essendo consci del costo ambientale associato al nostro lavoro. In altre parole: solo perché puoi (fare simulazioni a volontà, ndr), non vuol dire che devi! Una regola che, guarda caso è, in senso più generale, la regola d’oro delle nostre scelte individuali di cittadini e cittadine. Qualcosa che sembra una banalità, ma che vale sempre la pena ripetere. 


Matteo, l’autore di questo articolo, è un chimico teorico e ricercatore presso l’Università dell’Aquila. Se vuoi saperne di più, leggi il suo profilo sul sito.

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