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Riciclo chimico: una svolta nel riciclaggio dei tessuti?

Immagine che raffigura una massa indistinta di rifiuti tessili.

Ad oggi, la maggior parte dei rifiuti tessili finisce in discarica, ma la situazione potrebbe migliorare grazie a una nuova tecnologia.

Un articolo pubblicato sulla rivista Science Advances lo scorso 3 luglio ha presentato un nuovo metodo di riciclaggio chimico dei rifiuti tessili. Una potenziale svolta nel dare nuova vita alle fibre usate di nostri vecchi vestiti, perché veloce, relativamente poco costosa, e dai primi risultati incoraggianti. “Se scalato, potrebbe contribuire a affrontare la crescente montagna di rifiuti generata dall’industria della moda”, ha affermato Dionisios Vlachos, professore di ingegneria chimica all’Università del Delaware, uno degli autori dello studio.

Oggi vi raccontiamo questo articolo, per capire questo nuovo metodo di riciclo dei tessuti e perché sia una “potenziale svolta” (anche se non priva di difficoltà). 

Ma non senza capire prima dove siamo, e dove stiamo andando, quando parliamo di tessuti riciclati. Mettetevi comodi e comode e partiamo!

In questo articolo:

  • Un po’ di contesto: che fine fanno i nostri rifiuti tessili?
  • Il riciclaggio meccanico dei rifiuti tessili
  • Il riciclaggio chimico dei rifiuti tessili 
  • L’articolo: Chemical recycling of mixed textile waste (il riciclaggio chimico dei rifiuti tessili misti)
  • Prospettive future

Un po’ di contesto: che fine fanno i nostri rifiuti tessili?

Negli ultimi decenni, l’aumento della popolazione mondiale e della ricchezza ha portato a una crescente domanda di fibre tessili. Nel 2022, la produzione globale di fibre ha raggiunto i 113 milioni di tonnellate. Se le tendenze attuali continueranno, si prevede che tale produzione raggiungerà i 149 milioni di tonnellate entro il 2030. Questo non sarebbe necessariamente un male, se ne facessimo un uso sensato, e se fossimo tecnologicamente pronti a smaltire in modo efficiente i rifiuti che derivano da questa industria. Ma purtroppo non è così.

Una delle parole del nuovo millennio, infatti, è sicuramente fast fashion. Questa parola descrive il fenomeno per cui capi di abbigliamento poco costosi e di bassa qualità vengono acquistati, utilizzati per brevi periodi e rapidamente scartati. Certo, il mercato dei vestiti di seconda mano cresce a un ritmo incoraggiante: stimato a quasi 180 milioni di dollari nel 2023, se ne prospetta una crescita di oltre il 13% di qui al 2030.

Eppure, non è sufficiente. I rifiuti tessili si stanno accumulando a un ritmo allarmante: circa 92 milioni di tonnellate a livello globale ogni anno. 

Nel grafico sotto trovate i dati di produzione tessile e produzione di rifiuti tessili comparate con la produzione di grano degli Stati Uniti (quarto Paese al mondo per la produzione di questo bene di consumo). Tanto per aiutarvi a visualizzare bene l’enormità di questo numero.

Produzione di rifiuti tessili
Quante fibre tessili produciamo in un anno? E quanti rifiuti? (Immagine rielaborata da noi)

Il problema davvero serio è che questi rifiuti vengono gestiti in maniera inadeguata, e questo rappresenta non solo un importante carico di inquinamento di suolo, aria e acqua, ma anche una perdita enorme di risorse preziose. Nel grafico sotto trovate un breakdown delle destinazioni dei nostri rifiuti tessili.

Destinazione dei rifiuti tessili
Solo l’1% dei rifiuti tessili, attualmente, viene riciclato. Il 12% viene rielaborato e destinato a usi di minor valore (downcycling) mentre il 14% viene perso durante le fasi di produzione e raccolta. Il restante 73% finisce in discarica. Immagine rielaborata da noi, dati provenienti dall’articolo di Science Advances.

Il riciclaggio meccanico dei rifiuti tessili

Il metodo più comune di riciclaggio tessile oggi è il cosiddetto riciclaggio meccanico: un processo che prevede la scomposizione fisica dei materiali tessili usati in fibre. Queste vengono poi pulite, trasformate e riutilizzate per produrre nuovi tessuti o prodotti. Questo metodo, per quanto efficace e relativamente poco costoso, porta con sé delle problematiche che ne limitano l’efficacia. Solitamente accorcia la lunghezza delle fibre, riducendone la qualità e limitando il loro utilizzo a prodotti di valore inferiore (materiali isolanti e imbottiture).

Inoltre, il riciclaggio meccanico non è in grado di gestire efficacemente tessuti composti da più tipi di fibre. Questo è un serio problema, perché la stragrande maggioranza dei nostri capi di abbigliamento appartiene a questa categoria. (Nota doverosa: questo è perché i tessuti misti hanno proprietà spesso molto migliori di quelli a singola fibra.) Inoltre, una difficoltà aggiuntiva riguarda i rifiuti tessili colorati o quelli trattati per conferire al tessuto caratteristiche speciali, come la resistenza al fuoco o alla luce ultravioletta. Insomma, utile, ma un metodo di riciclo tutt’altro che perfetto.

Il riciclaggio chimico dei rifiuti tessili

Una possibile alternativa è quella del riciclaggio chimico, una tecnica già nota nel mondo dei polimeri (e non a caso molto interessante per le plastiche). Il riciclaggio chimico, nella sua accezione generica, è un processo che scompone i polimeri in monomeri o altri composti chimici di base attraverso reazioni chimiche. Questi componenti possono poi essere purificati e riutilizzati per sintetizzare nuovi polimeri, permettendo un ciclo di vita più sostenibile per i materiali plastici e polimerici. Se applicato alle fibre tessili (anche loro fatte di materiali polimerici) questo metodo fornisce come prodotto un monomero indistinguibile da quello di partenza. Questo può essere nuovamente polimerizzato e filato per ottenere fibre praticamente indistinguibili da quelle vergini. 

Un aspetto interessante di questa strategia è che risulta più efficace sui tessuti misti, perché può riuscire a riciclare un singolo componente della miscela. Già nel 2023, ad esempio, era stata pubblicata sulla rivista Green Chemistry una procedura per riciclare il poliestere dai rifiuti tessili misti. La tecnica presentata sfrutta la de-polimerizzazione del poliestere a bis(2-idrossietil) tereftalato (BHET), molecola da cui si può ripartire per la polimerizzazione del materiale vergine. Nonostante l’ottima riuscita anche sul poliestere colorato, il processo ha qualche debolezza.  Richiede alte temperature e lunghi tempi di reazione, e soprattutto, non permette di recuperare gli altri componenti del tessuto, che costituiscono un ulteriore rifiuto. 

L’articolo:
Chemical recycling of mixed textile waste 
(il riciclaggio chimico dei rifiuti tessili misti)

In questo contesto complesso si colloca l’articolo di Science Advances. Le autrici e gli autori dello studio hanno utilizzato un catalizzatore di ossido di zinco – non tossico e poco costoso – per promuovere una reazione chimica chiamata glicolisi. Questa reazione è in grado di scindere alcuni legami del poliestere e trasformarlo, come nell’articolo citato prima, in BHET. La reazione, assistita da calore e microonde, dura soli 15 minuti, ed è efficace nel trattare tessuti con diverse composizioni. Sono state testate, ad esempio, miscele di solo poliestere e cotone, ma anche veri rifiuti tessili contenenti nylon, poliestere, cotone e spandex (o elastano) in proporzioni ignote.

Cosa accade durante il trattamento descritto nell’articolo di Science Advances? Il poliestere viene spezzettato in BHET, mentre cotone e nylon vengono recuperati intatti. I loro frammenti vengono poi separati l’uno dall’altro grazie a un solvente selettivo (cioè, un solvente che riesce a scioglierne uno solo lasciando l’altro integro). Dello spandex si riesce a recuperare solo alcuni pezzetti di molecola (principalmente la metilendianilina, MDA) e il processo relativo è ancora da ottimizzare. Un risultato comunque già interessante, considerando che lo spandex si trova solitamente in quantità molto piccole nell’abbigliamento non sportivo o tecnico. (Immagine dall’articolo citato)

I risultati, però, sono peggiori sui tessuti colorati e quelli sottoposti a trattamenti per renderli ignifughi, impermeabili, o resistenti ai raggi UV. Questo perché le molecole usate in questi trattamenti (coloranti o altro) sono disperse tra le fibre e ostacolano fisicamente l’attacco del catalizzatore.

Su tessuti bianchi e non trattati la percentuale di poliestere convertito è intorno al 90%, ma scende intorno al 70% per i tessuti colorati. Ancora peggio, in un caso specifico (quello dei tessuti ignifughi) crolla al 10%. Questo renderebbe necessario un pretrattamento prima della depolimerizzazione, oppure un’ottimizzazione delle condizioni di reazione… insomma, parecchio altro lavoro. (Immagine dall’articolo citato)

Prospettive future

Ma quali reali prospettive ha questa tecnologia? Potrà essere portata facilmente fuori dal laboratorio? Per rispondere a questa domanda, autori e autrici hanno portato avanti anche un’analisi tecnico-economica della tecnologia da loro proposta. Da questa emergono non solo una buona possibilità di trasferimento della tecnologia su scala industriale, ma anche importanti vantaggi economici al crescere delle quantità processate. Da ultimo, si menziona che non sono ancora stati esaminati nel dettagli gli aspetti di sostenibilità della tecnologia presentata. E questi, come sappiamo, giocano un ruolo chiave nel definire la convenienza di un processo.

Insomma, anche se i risultati riportati sono incoraggianti, è facile capire che non siamo ancora arrivati alla tecnologia “ideale” per il riciclo dei rifiuti tessili. In attesa che i tempi per questa e altre metodologie siano maturi, però, ricordiamo sempre qual è la strategia ideale di contenimento dell’impatto ambientale. “Riciclare”, ma prima ancora, “ridurre” e “riutilizzare“. Quindi, abbiamo davvero bisogno di quella nuova t-shirt? E siamo sicuri che quel piccolo buco sui calzini non possa essere riparato? Mentre ricercatrici e ricercatori lavorano, rispondiamo correttamente a queste due domande, per dar loro (e al pianeta) una mano.

Nota sulle fonti: dove non specificato diversamente, le cifre che trovate citate nell’articolo sono state riportate dall’articolo su Science Advances.

Se ti interessa il tema degli impatti ambientali, abbiamo scritto anche dell’impatto ambientale legato al nostro uso di internet. Buona lettura!

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